Le cravatte del centroboa

Proseguiamo il viaggio nei ricordi biancorossi con questo articolo del capitano per eccellenza: Fulvio Falco.

Accetto molto volentieri l’invito del Capo a trattare l’argomento perchè in questo modo posso raccontare la mia esperienza di centroboa nella seconda parte del periodo trascorso con la calottina biancorossa della Rari.

L’argomento è storico, anedottico, tecnico ed anche un filo folkloristico, esempio tipico di una pallanuoto antica che oggi non esiste più.

Tradizionalmente, il ruolo di centroboa è da sempre stato assegnato ad atleti fisicamente molto prestanti, forti, e pure, ma forse limitatamente al passato, non molto veloci. Tuttavia tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80, alcune squadre iniziano ad inserire in tale posizione giocatori di taglia media.

Tra questi il prototipo è il napoletano, sponda Posillipo, Stefano Postiglione che avrà una carriera ricca di titoli e soddisfazioni. Ed è forse a lui che io finisco magari inconsciamente ad ispirarmi con i miei 77-78 kg x 174 cm.

L’utilizzo di centroboa di stazza inferiore è favorito anche dal regolamento vigente in questi anni e dalla parallela filosofia di arbitraggio. In primo luogo la regola dei “3 falli” (difensore espulso dopo il terzo fallo consecutivo sullo stesso giocatore) consente all’uomo che sta sui due metri di essere un catalizzatore della manovra. Inoltre, gli arbitraggi tendono a favorire una difesa più tecnica nei confronti dell’attaccante, favorendo un gioco di gambe , anticipi e velocità, piuttosto che

contatti esasperati e prese tipo lotta libera come forse si vedono oggi.

In questo contesto il ruolo stesso finisce per modificarsi, trasformandosi da quello di attaccante puro

con fini puramente realizzativi, a quello di distributore di gioco, di “playmaker”.

La mia carriera di centroboa nasce in maniera assolutamente casuale in occasione della vittoriosa trasferta di Bologna nel 1978. Non so per quale motivo, ma ad un certo punto finisco ai due metri e da lì è subito colpo di fulmine! Entro in un ruolo che sarà il mio fino alla fine della mia avventura pallanuotistica. I motivi che hanno reso possibile questo evento sono vari. In primo luogo credo che il Capo mi veda bene in quella posizione perchè della formazione base di quei tempi io sono certamente l’elemento tecnicamente più scarso, ma soprattutto quello con il tiro da fuori più disastroso, veramente inguardabile. Giocando ai due metri non ho occasioni di tiri da fuori. Inoltre, i miei più talentuosi e giovani compagni di squadra non amano andare ai due metri perchè ti devi fare un mazzo tanto e non puoi fare il figo con tiri, finte, entrate e compagnia bella. Al contrario io mi adatto subito: giocare spalle alla porta mi consente di smistare la manovra come voglio, le gambe sono buone, la posizione la tengo bene e qualche conclusione riesco anche a provarla con le tipiche tecniche di “lappruccio” o di “ravatto”: rovesciate, sciarpe, spasoni, manate ecc. Sono tutte conclusioni “sporche”, un po’ di rapina spesso proprie dei giocatori svelti ma con poca classe.

Certo giocare nel pozzetto non è rilassante dal momento che hai sempre un difensore che ti pressa costantemente e con il quale ingaggi quasi sempre una sorta di duello rusticano: mani, piedi, gomiti,

testa, tutto è buono per sopravvivere e farsi rispettare. Tuttavia in questo contesto riesco ad incanalare la mia “vis” agonistica e la mia combattività.

Nel 1980 la classe arbitrale decide di inasprire ulteriormente i provvedimenti sui difensori nei confronti del centroboa. Viene spiegato a chiare lettere che la presa al collo dell’attaccante, appunto la così detta “cravatta”, sarà immediatamente sanzionata con l’espulsione.

Subito l’idea si materializza nella mia testa: la cravatta me la procuro! Detto fatto vado ai due metri, afferro il polso del difensore e mi giro il suo braccio attorno al collo facendo finta di essere strangolato: fischio e avversario nell’angolo degli espulsi incazzato come un’ape.

Devo dire che l’idea si rivela buona fin dall’inizio: gli arbitri abboccano come tonni e per un paio d’anni 1-2 espulsioni a partita riesco a portarle regolarmente a casa. Poi devo smettere perché la voce comincia a girare e non ci cascano più.

Delle tante cravatte “vendute” agli arbitri, quella che ricordo di più è l’ultima: Firenze 1982, 40 sec alla fine, abbiamo appena preso il gol del 6-7 contro la Florentia dei fratelli De Magistris, Panerai e Ferri.

Io sono in panchina, come spesso accade in questa stagione. All’improvviso il Capo: “Vai Fulvio provati una cravatta!!”. Detto fatto: mi tuffo, mando Adriano Zunino a portare fuori dai 2 metri Riccardo De Magistris (poco salutare provarci con lui), ed entro io marcato dal “frisciollo” (termine allora usato per indicare il difensore più scarso). Arriva la palla, cravatta, espulsione, superiorità numerica e ad una manciata di secondi dalla fine lo stesso Zunino (mi pare fosse lui) buca Panerai: 7-7 e tutti a casa. Noi molto contenti per il buon punto raccolto nella non facile vasca di Campo di Marte. Per inciso, ricordo che al primo anno di serie A perdiamo solo 3 partite.

E’ probabile che qualcuno, o forse molti, leggendo queste righe possano storcere il naso. Penseranno magari che questi trucchi non erano leali né sportivi.

A dire il vero ricordo quegli episodi con una certa soddisfazione perché secondo me facevano parte del gioco. Sono cresciuto ad una scuola pallanuotistica dove si insegnava che non è tanto importante quello che fai ma quello che fai vedere. Inoltre mi è anche capitato di scontare giornate di squalifica per infrazioni non commesse. Credo che tutto ciò faccia parte della pallanuoto nel bene e nel male, niente di più.

Penso che le cravatte altro non fossero che una forma di espressione del mio pur limitato bagaglio

tecnico, quello di uno che, parafrasando Ligabue, si è sempre impegnato in ” una vita da mediano”.

Fulvio Falco

(Foto in alto: 1979 partita a Voltri. Da sinistra: Fulvio Falco, Claudio Mistrangelo e Adriano Zunino).